Articolo di Maria Maddalena Ferrari e Michele Perillo
Abbiamo meccanismi protettivi innati che ci aiutano a sopravvivere in situazioni pericolose. Gli apparati sensoriali vista, udito, olfatto, tatto, dolore, ecc. comunicano rapidissimamente al cervello le percezioni o addirittura provocano direttamente, per riflesso, il provvedimento adatto (come il battito degli occhi, lo scostamento rapido della mano da qualcosa che scotta o lo spontaneo gesto di ritorno alla posizione fetale se colpiti da forte rumore improvviso). Il nervo vago ci fa immobilizzare di fronte al pericolo, come accade ad altri animali, per non essere individuati (il movimento è rilevato dalla vista e dall’udito di molti animali – noi compresi – e ne attira l’attenzione) o per sembrare morti. La teoria polivagale del dott. Stephen Porges individua due circuiti funzionali del nervo vago, il “complesso vagale dorsale” (DVC) più antico, che provoca tra l’altro appunto l’immobilizzazione difensiva, e un secondo sistema evolutosi più recentemente, il “complesso vagale ventrale” (VVC), detto anche “sistema nervoso sociale”, che ci spinge ad associarci agli altri per cercare comunicazione e sicurezza. Porges chiama “neurocezione” i modi in cui questo nostro apparato nervoso autonomo percepisce e affronta le segnalazioni interne o esterne di pericolo o di sicurezza in modo inconscio, anche se possiamo accorgerci del nostro livello di eccitazione dal battito del cuore, dal ritmo del respiro e dal senso di spossatezza e tentare di reagire in modo da aumentare il senso di tranquillità e partecipazione.
Quando ci sentiamo minacciati, attraversiamo tre percorsi automatici del sistema nervoso: se possibile, cerchiamo anzitutto di attivare il nostro sistema nervoso sociale, per ristabilire un senso di contatto e sicurezza, come farà per esempio un bambino che, di fronte al rischio di separazione dalla mamma, cercherà dapprima di sorridere o prenderla per mano, per sentirsi rassicurato o impedire la sua partenza. Se comunque non riesce ad assicurarsi un legame relazionale, comincerà a piangere o a cercare di aggrapparsi. Questo gesto può trasformarsi in sentimenti di rabbia o paura, e il bambino può scappare o cercare di picchiare la mamma. Questi comportamenti indicano che attraversa la fase “fuggi o combatti” per effetto dell’attivazione del sistema nervoso simpatico sociale. In situazioni di minaccia prolungata (abuso, sequestro) il sistema “fuggi o combatti” può non bastare per farlo sentire sicuro. In tal caso, si affiderà all’azione del circuito vagale antico che potrà indurre immobilità, svenimento, collasso, perdita di tono muscolare, rallentamento del battito cardiaco, nausea, vertigini, torpore.
Solo successivamente subentra l’intervento del pensiero cosciente che, nel valutare l’evento o il problema, attraversa secondo Kahneman, due fasi. Anzitutto si mette in moto il pensiero veloce, l’intuito che fornisce risposte urgenti riferendosi a stime innate basate su pregiudizi (bias) consolidatisi con l’evoluzione perché rivelatisi vincenti in molte situazioni analoghe. Se rimane il tempo, è poi la volta del pensiero lento, che confronta “razionalmente” le situazioni con le esperienze e le conoscenze apprese nel corso della propria storia, alla ricerca dei provvedimenti più idonei.
Nel suo libro “The polyvagal theory in therapy”, Deb Dana esplorò nel 2018 il processo interattivo che coinvolge i sistemi nervosi sociali del paziente e del terapeuta. Durante le sedute lo psicologo deve sintonizzarsi emotivamente e prendere coscienza alle proprie reazioni, facendo attenzione ai cambiamenti del proprio corpo (come l’accelerazione del respiro o del battito cardiaco) e immedesimandosi più profondamente nell’esperienza del paziente. Secondo la dottoressa Arielle Schwartz, la psicoterapia diviene così un processo interattivo e cooperativo che coinvolge il sistema nervoso simpatico di entrambi, il paziente e lo psicologo, e agevola l’empatia con la quale ci apriamo ad accettare gli altri come sono (e, con reciprocità, noi stessi) e a condividerne gli stati d’animo, con quella che chiamiamo comunemente, nella vita di tutti i giorni, la simpatia che ci collega a coloro che frequentiamo.
Questa cooperazione curativa richiede che il terapeuta abbia familiarità con un’ampia gamma di condizioni emozionali, perché molti pazienti non hanno mai avuto qualcuno capace di star loro vicino senza diventare ansioso a sua volta, chiudersi in sé e lasciarli nel loro dolore. Nella psicologia somatica il terapeuta deve invece farsi coinvolgere anche a livello nervoso dalle loro reazioni emotive e offrire reciproca apertura e ricettività sicché il paziente si senta accettato, capito e non criticato neppure per i suoi errori. Condividere le emozioni negative del paziente (fino a replicarne le reazioni vagali e comunicarle anche attraverso il linguaggio del corpo e il tono di voce) aiuta a mantenere la sintonia e la fiducia nella terapia e diventa strumento di autoconoscenza, crescita e cura per entrambi, applicabile con successo anche – come ha confermato nel 2020 la dottoressa Schwartz – per il trattamento delle alterne fasi di ipereccitazione e di apatia che spesso attraversano i pazienti affetti da disturbo da stress post traumatico (PTSD), ma potrebbe essere una buona ricetta anche per i rapporti umani nella vita di tutti i giorni.
Il nervo vago ci fa immobilizzare di fronte al pericolo, come accade ad altri animali, per non essere individuati (il movimento è rilevato dalla vista e dall’udito di molti animali – noi compresi – e ne attira l’attenzione) o per sembrare morti. La teoria polivagale del dott. Stephen Porges individua due circuiti funzionali del nervo vago, il “complesso vagale dorsale” (DVC) più antico, che provoca tra l’altro appunto l’immobilizzazione difensiva, e un secondo sistema evolutosi più recentemente, il “complesso vagale ventrale” (VVC), detto anche “sistema nervoso sociale”, che ci spinge ad associarci agli altri per cercare comunicazione e sicurezza. Porges chiama “neurocezione” i modi in cui questo nostro apparato nervoso autonomo percepisce e affronta le segnalazioni interne o esterne di pericolo o di sicurezza in modo inconscio, anche se possiamo accorgerci del nostro livello di eccitazione dal battito del cuore, dal ritmo del respiro e dal senso di spossatezza e tentare di reagire in modo da aumentare il senso di tranquillità e partecipazione.
Quando ci sentiamo minacciati, attraversiamo tre percorsi automatici del sistema nervoso: se possibile, cerchiamo anzitutto di attivare il nostro sistema nervoso sociale, per ristabilire un senso di contatto e sicurezza, come farà per esempio un bambino che, di fronte al rischio di separazione dalla mamma, cercherà dapprima di sorridere o prenderla per mano, per sentirsi rassicurato o impedire la sua partenza. Se comunque non riesce ad assicurarsi un legame relazionale, comincerà a piangere o a cercare di aggrapparsi. Questo gesto può trasformarsi in sentimenti di rabbia o paura, e il bambino può scappare o cercare di picchiare la mamma. Questi comportamenti indicano che attraversa la fase “fuggi o combatti” per effetto dell’attivazione del sistema nervoso simpatico sociale. In situazioni di minaccia prolungata (abuso, sequestro) il sistema “fuggi o combatti” può non bastare per farlo sentire sicuro. In tal caso, si affiderà all’azione del circuito vagale antico che potrà indurre immobilità, svenimento, collasso, perdita di tono muscolare, rallentamento del battito cardiaco, nausea, vertigini, torpore.
Solo successivamente subentra l’intervento del pensiero cosciente che, nel valutare l’evento o il problema, attraversa secondo Kahneman, due fasi. Anzitutto si mette in moto il pensiero veloce, l’intuito che fornisce risposte urgenti riferendosi a stime innate basate su pregiudizi (bias) consolidatisi con l’evoluzione perché rivelatisi vincenti in molte situazioni analoghe. Se rimane il tempo, è poi la volta del pensiero lento, che confronta “razionalmente” le situazioni con le esperienze e le conoscenze apprese nel corso della propria storia, alla ricerca dei provvedimenti più idonei.
Nel suo libro “The polyvagal theory in therapy”, Deb Dana esplorò nel 2018 il processo interattivo che coinvolge i sistemi nervosi sociali del paziente e del terapeuta. Durante le sedute lo psicologo deve sintonizzarsi emotivamente e prendere coscienza alle proprie reazioni, facendo attenzione ai cambiamenti del proprio corpo (come l’accelerazione del respiro o del battito cardiaco) e immedesimandosi più profondamente nell’esperienza del paziente. Secondo la dottoressa Arielle Schwartz, la psicoterapia diviene così un processo interattivo e cooperativo che coinvolge il sistema nervoso simpatico di entrambi, il paziente e lo psicologo, e agevola l’empatia con la quale ci apriamo ad accettare gli altri come sono (e, con reciprocità, noi stessi) e a condividerne gli stati d’animo, con quella che chiamiamo comunemente, nella vita di tutti i giorni, la simpatia che ci collega a coloro che frequentiamo.
Questa cooperazione curativa richiede che il terapeuta abbia familiarità con un’ampia gamma di condizioni emozionali, perché molti pazienti non hanno mai avuto qualcuno capace di star loro vicino senza diventare ansioso a sua volta, chiudersi in sé e lasciarli nel loro dolore. Nella psicologia somatica il terapeuta deve invece farsi coinvolgere anche a livello nervoso dalle loro reazioni emotive e offrire reciproca apertura e ricettività sicché il paziente si senta accettato, capito e non criticato neppure per i suoi errori. Condividere le emozioni negative del paziente (fino a replicarne le reazioni vagali e comunicarle anche attraverso il linguaggio del corpo e il tono di voce) aiuta a mantenere la sintonia e la fiducia nella terapia e diventa strumento di autoconoscenza, crescita e cura per entrambi, applicabile con successo anche – come ha confermato nel 2020 la dottoressa Schwartz – per il trattamento delle alterne fasi di ipereccitazione e di apatia che spesso attraversano i pazienti affetti da disturbo da stress post traumatico (PTSD), ma potrebbe essere una buona ricetta anche per i rapporti umani nella vita di tutti i giorni.