Articolo di Maria Maddalena Ferrari e Michele Perillo
Cercare l’avventura è strumento che si è sviluppato e impresso per via evolutiva nella nostra specie (e in quella di diversi animali) per spingerci ad affrontare deliberatamente l’incognito e l’imprevisto anche rischioso. Si tratta certamente di uno dei principali motori dell’espansione e del successo/progresso dell’umanità. Gli individui ne hanno “sete”, come si suol dire, spinti da curiosità e gusto per la novità, brama di risorse o desiderio di elevare il proprio status (elevare rango, anche ai fini del successo riproduttivo) dimostrando forza, ricchezza, abilità o coraggio. L’avventura per antonomasia è quella ad alto rischio, come tipicamente le romanzesche esplorazioni di terre ignote e territori potenzialmente ostili del passato, oppure oggi di luoghi inospitali come lo spazio. Come tutti gli istinti di questo tipo, che se non trovano applicazione pratica si sfogano in svaghi che rappresentano e sostituiscono gli scopi primordiali e ne forniscono il piacere, oggi l’appetito/bisogno di avventura viene appagato anche nella pratica di certi sport, per esempio escursioni in terreni impervi, alpinismo, canyoning, rafting, ecc.
L’attesa stessa dell’evento, l’apprensione prima e poi i piccoli brividi di paura nelle difficoltà, l’impegno psicofisico, l’estraneità di ambienti e situazioni insolite occupano completamente l’attenzione e le forze degli individui, fanno cancellare e/o ridimensionare gli altri pensieri (anche per effetto dell’aspetto piacevole, di-vertente dell’avventura), modificando valori e priorità nell’autostima e nell’immagine di sé. La curiosità per il nuovo e il timore di ciò che non è familiare, il piacere delle scoperte e le esperienze di successo sono tutti potenti stimoli per l’apprendimento e la fissazione nella memoria di quanto appreso o sperimentato.
L’avventura è vissuta come ricerca della sorpresa, dove l’imprevisto funge da fattore distraente dall’eccessivo ascolto di sé stessi e dei propri problemi, ma anche induce la presa di coscienza delle propriecapacità pratiche e psicologiche e instaura un ritrovato rapporto ancestrale, concreto e protetto, con l’ambiente naturale. Diventa strumento di socializzazione in situazioni di reciproca dipendenza dalla solidarietà dei colleghi, di accettazione delle regole e della gerarchia degli istruttori-guide (riconosciuti come capi perché incoronati dall’aiuto prestato e dall’esempio di maggiori capacità e conoscenze), gestori affidabili e tranquillizzanti nelle difficoltà e negli imprevisti, che restano comunque pieni di novità e sorprendenti, generando costante aspettativa.
Ecco le ragioni per cui alcune forme di terapia individuale o collettiva oggi si basano molto sulla vita all’aria aperta, sulla programmazione e l’esperienza dell’avventura, per raggiungere gli obiettivi di cambiamento dei pazienti. A causa della mentalità prevalente nella psicologia e nella psicoterapia tradizionali, spesso legate a modelli storici e fortemente antropocentrici e tradotte nell’uso di strumenti prevalentemente verbali, il mondo naturale non viene sempre considerato un fattore importante nella relazione curativa, capace di influire in modo efficace sull’esito degli interventi terapeutici sostenuti dalla progettazione di programmi adatti, che facilitino i percorsi e attivino la dinamica sociale, specialmente dei piccoli gruppi. Un crescente numero di psicologi va sostenendo però un cambiamento di paradigma verso la terapia d’avventura e l’ecoterapia tramite la programmazione di eventi e situazioni, che conducano ad accettare e riconoscere i poteri curativi della natura, per ristrutturare la terapia come una ‘ecologia della guarigione’ che integra in un approccio olistico i fattori umani e le relazioni con l’ambiente naturale.
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